Maurice Blondel: «L’invention de la coscience»
All’età di dieci anni Marie, cieca e sorda fin dalla nascita avvenuta nel 1885 a Vertou Loire-Inférieure, viene accolta all’istituto di Larnay vicino a Poitiers in Francia dalle Filles de la sagesse che si occupano di solito di giovani sorde ma vedenti. Il comportamento della ragazza lo si può descrivere con due parole: aggressivo e animalesco. Priva di coscienza, senza segni di riflessione e di consapevolezza distinta dei propri atti, sembra essere condannata a rimanere in questo stato animale. Sarà l’incontro con sr. Sainte-Marguerite che, dal momento in cui si prende cura di lei, le permetterà di passare dal “buio alla luce” come recita il sottotitolo del film “Marie Heurtin” (France, 2014) che abbiamo visto domenica scorsa.
Un essere cosciente sa ciò che sta facendo. Un essere non cosciente non si pone alcuna domanda. Il suo essere stesso rimane in una specie di ombra e sonno. Non è cosciente del suo stesso essere. Dove quindi è il salto da quest’ordine immanente alla trascendenza di un pensiero?
Per rispondere a questa domanda ci siamo lasciati accompagnare dalla descrizione e dalle riflessioni del filosofo M. Blondel nel capitolo «L’invention de la coscience» in La Pensée, di cui riportiamo alcuni passi.
«In un bambino dotato di tutti i sensi, la vita di relazione è stimolata fin dalla più tenera età dall’esercizio simultaneo e comparato di vista, udito e tatto, che avvolgono gli oggetti con testimonianze concomitanti», per non parlare di tutto ciò che comporta la presenza visibile delle persone con i loro gesti, le loro parole e «tutta la tradizione di pensieri veicolati dal linguaggio umano. Ora, per una persona sordo-muta-cieca è possibile rendersi conto dell’abisso di oscurità, silenzio e isolamento in cui è sepolta, senza poter immaginare i mezzi di scambio sui quali, principalmente o addirittura unicamente, si basa ordinariamente l’educazione umana?» Non solo non capace di entrare in contatto con altri, ma lei [come altri viventi con questa mancanza] «nella loro solitudine, ridotti a impressioni tattili, rimangono incapaci di inventare un linguaggio per intendersi prima di tutto con sé stessi.»
Marie spesso teneva con sé un oggetto d’avorio «il cui tocco morbido aveva senza dubbio il fascino di una carezza per lei». Contrastando il piacere del tenerlo e sentirlo imponendo in questo momento vuoto del desiderio un segno, suscitando l’idea di un gesto (concreto con le mani) che traduceva il desiderio per l’oggetto voluto, ecco che con l’aiuto della suora accogliendo e poi riproducendo il segno si sveglia la coscienza della ragazza: Coltello, questo è un coltello. Ecco che comincia un dialogo, qui non acusticamente o visibilmente, ma sensibilmente con il segno delle dita inizialmente mosse dalla suora:
Dal momento in cui l’invenzione del segno espressivo illuminò le tenebre dell’intelligenza addormentata, si produsse il miracolo psicologico: grazie a questo piccolo dettaglio che sembrava così infinitesimale, tutta la fertile iniziativa del pensiero poté esplodere, scorgendo in mezzo al caos la possibilità di raffigurare distintamente un oggetto, poi un altro, un desiderio, poi un altro. Infine, il pensiero di Marie Heurtin, pur privato della maggior parte degli arredi della conoscenza umana, non era privato di nessuna delle verità essenziali, di nessuno degli aspetti dell’ordine morale e sociale e nemmeno di nessuna delle gioie estetiche.
Ma quello che dovremo capire è che, anche in coloro che sono dotati di tutti i sensi, l’istituzione volontaria del segno convenzionale è, a rigore, la condizione universale, necessaria e sufficiente della coscienza distinta.
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